Primavera a Cuba. Così è se vi pare.
inserito da Giulia & Romeo
Inizia presto la festa del lavoro, il primo maggio, a Cuba: alle otto in punto il microfono amplifica il suono della voce di Fidel Castro, attraversando tutta la Piazza gremita della Rivoluzione e tutte le 14 provincie dell’isola caraibica. Chi non scende in piazza è davanti alla tv, davanti a quel mattatore di Fidel che parla ininterrottamente per tre ore e mezza. Alle otto la piazza, negli schermi televisivi, è affollata come non mai: alle dieci molti se ne sono già andati, il discorso è lungo e in effetti più che un discorso è un interminabile sermone sullo stato delle cose del Paese. E’ tutto sottocontrollo, piena occupazione, economia in crescita. Il leader con la divisa verde militare snocciola numeri e cifre come nei discorsi preelettorali di una campagna politica. Il fiore all’occhiello del regime, oltre al settore medico, è quello dell’istruzione: vengono dati i numeri degli insegnanti in carica, degli studenti universitari, degli ultimi computer acquistati per le scuole. Si ricordano le tappe della storia del paese, dall’ assalto alla Baia dei Porci agli incontri più recenti con i leader mondiali. In tanti sono lì, con la maglietta rossa con gli slogan firmati Fidel sulla schiena, dal contenuto assolutamente incontestabile: esta humanidad tiene ansias de justicia. Ma pochi trasmettono gioia ed energia. Forse perché fa caldo, tre ore sono lunghe, e molti sono arrivati da lontano su camionette e furgoncini fin dalle prime ore dell’alba. E forse perché nel Paese, per chi varca i confini di Varadero e Cajo Largo, non tutto è oro quello che luccica fra i numeri e le statistiche in mano a Fidel. Brillano sotto il sole e nella notte alcuni centri storici proclamati Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, come l’Avana Vecchia e Trinidad. Brillano le acque e la sabbia bianca delle spiagge caraibiche, quelle più famose e quelle ancora poco sfruttate dei cajos. Brillano gli intramontabili miti del tabacco del rum della salsa e della rumba. Brillano i sorrisi delle cubane concentrati nei siti più turistici. Brillano le automobili anni cinquanta, trasformate in patrimonio nazionale da Castro negli ultimi anni, per impedirne la fuga in occidente. Brillano la dignità e la distinzione di tutti i locali, di qualsiasi etnia, e sono tante, al di là dei disagi e del basso tenore di vita. Ma tutto intorno sembra più spento e opaco. Spenti gli sguardi di centinaia di cubani che ogni giorno fanno l’autostop sotto il sole, aspettando anche ore, in qualsiasi parte dell’isola. Spenti i computer dei giovani, a cui è vietato l’accesso a internet, la più grande finestra sul mondo. Spente le speranze e i sogni di una vita diversa, perché quello che succede a Cuba è tutto previsto e organizzato dallo stato. Se pieni di forza e di energia sono i manifesti giganti che inneggiano alla rivoluzione ai bordi delle strade o le fotografie del Che ritratte sulle cartoline, sui libri, sui muri e sulle bandiere, più deboli e fragili sono le richieste sussurrate da persone di ogni età che sia in campagna che nelle cittadine chiedono sapone, biro, o qualcosa per vestirsi. Accanto alle grosse macchine americane di tutti i colori che sfilano e ti sorprendono in ogni angolo del paese, cavalli carretti e risciò sbucano dai vicoli, in campagna come in città, ricordando la stagnazione economica di un paese che sembra rimasto indietro di più di cinquant’anni. Un paese contraddittorio, in cui puoi ancora trovare un ex guerrigliero del Che, che al solo nominarlo allarga le braccia e spalanca gli occhi lucidi e con rispetto e reverenza ti racconta che il comandante era un uomo “muy recto”; e che oggi fa la guardia costiera a una spiaggia per soli turisti, il cui accesso è vietato ai cubani da un posto di blocco con tanto di bandierine rosse e pedaggio di entrata. Un Paese in cui persino chi gestisce le case particular per gli stranieri, dunque fra gli unici imprenditori ammessi dal regime, non ha mai avuto la possibilità di girare l’isola e la guarda sorpreso nella macchina digitale dell’ospite turista. Dove ognuno è apparentemente convinto, privo della possibilità di fare confronti anche con gli stessi connazionali, che Castro sia “muy bonito”, che a Cuba ci sia tutto il necessario e che “se uno ottiene il frigorifero significa che nell’isola lo hanno ottenuto anche tutti gli altri abitanti”. Dove solo qualcuno esce dal coro, consapevole di essere additato come “un loco”, matto, per raccontare ai turisti che Castro è come Caligola, un assassino. Che Cuba è come un enorme carcere. Che se la domenica non si vede tanta gente in giro è perché la gente è povera e triste, priva di libertà. Che in realtà tutti sognano di poter andare negli Stati Uniti, speranza uccisa sul nascere da un’esercito di poliziotti che rappresenta un terzo della popolazione. Ma nella Plaza della Revolucion il primo maggio sembra tutto sotto controllo. Dopo più di 3 ore ininterrotte e fluenti Fidel lancia il suo “Patria o muerte vinceremos”. E tutti a cantare l’internazionale. A commuoversi c’è solo un turista europeo. Ahi ahi, nostalgia canaglia. Per un ideale sottovuoto, con la data di conservazione ormai scaduta Nel pomeriggio in piazza restano solo le bandierine e le trombette per terra. I resti tragicomici di una propaganda sbandierata. Ma la rivoluzione continua, hasta la victoria siempre.
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